Battle Royale – la recensione di Elena

Ricordate l’invito a mandarmi le vostre recensioni?
Mi ha contattato Elena per propormi la sua visione di Battle Royale.
Ed io, ovviamente, ve la propongo così come lei l’ha pensata e scritta.

Film horror tra i più famosi e apprezzati in Giappone, Battle Royale ha rappresentato al tempo stesso una denuncia contro la gioventù giapponese del xx secolo, e della società che la plasma, repressiva e indifferente al tempo stesso.

Kiji Fukusaku, famoso per la collaborazione alla regia di un grande classico sulla guerra, Tora!Tora!Tora!, non esitò a tradurre in immagini il best seller dello scrittore Koushun Takami, ispiratore già di un manga e di molte altre iniziative.
Il risultato fu clamoroso; il film causò tanto clamore che il governo giapponese tentò di bloccarne la distribuzione nel Paese prima, e all’estero poi, ritenendo desse un’immagine eccessivamente violenta e denigratoria della società contemporanea. L’apprezzamento da parte del pubblico fu invece tanto elevato che vennero girati in poco tempo due sequel, e i protagonisti divennero, da semisconosciuti, attori di fama anche internazionale.

Il tema di base riguarda l’animo umano, l’istinto di sopravvivenza. Cosa faresti, se ti venisse messa in mano un’arma e ti venisse ordinato di uccidere il tuo migliore amico per salvare la tua vita?
In sostanza è questo che accade ai componenti di una classe di terza media nell’immaginaria Repubblica dell’Est concepita da Takami.
Per una vera legge di stato, ogni anno una classe di ragazzini viene deportata in un luogo inaccessibile e a tutti loro viene data un’arma, che può spaziare da una mitragliatrice a un cucchiaio, per lasciare spazio all’imprevedibilità. Dopodiché, i ragazzi vengono liberati in uno spazio aperto e hanno tre giorni per uccidersi a vicenda.
Scaduto il tempo limite, se è in vita più di un solo ragazzo, vengono tutti uccisi.
Quindi l’istinto di sopravvivenza scatena le menti più deboli, fa emergere l’atavica consapevolezza che nessuno conosce realmente un’altra persona e non sa se può fidarsi di lei in una situazione in cui si è inevitabilmente destinati a morire. Coloro che non vogliono uccidere si ritrovano costretti a farlo per difendersi da chi ha deciso di accettare quelle regole e diventare un assassino.

Il target a cui il film è rivolto oscilla tra i quindici, diciotto anni, indicativamente. Il livello stilistico è appositamente concepito per un pubblico adolescente, infatti si notano diversi punti in cui le scene sono quasi copiate dal fumetto ispirato al romanzo, con tocchi di umorismo surreali considerando la situazione che vivono i protagonisti. Con ben quarantadue personaggi su cui è incentrata la trama, inevitabilmente alcuni di loro sono apparsi solo per pochi secondi, mentre altri nei loro atteggiamenti sono autentici stereotipi della filmografia giapponese: Otaku, la studentessa priva d’inibizioni, criminali inossidabili, eroi duri dal cuore buono. E alla figura dell’insegnante, Takeshi Kitano, spietato e corrotto, è stata data una vaga umanità che invece non possedeva nel libro e nel manga.
Il sottofondo musicale è abbastanza indicato, concede al film l’importanza che intende assurgere. Le scene splatter non sono particolarmente numerose né elaborate.
Gli effetti speciali sono infatti qualcosa di molto rudimentale, adatto alla visione del pubblico giovane a cui si rivolge. Eccessivamente stoiche invece le scene d’amore ed eccessivi i momenti di lungaggine negli ultimi omicidi, dove chi è colpito anche dozzine di volte si rialza sempre per un ultimo colpo al proprio assassino. Anche Kitano, che pare morto, si rialza il tempo necessario per rispondere a una telefonata della figlia con cui, si è lasciato capire, ha un rapporto problematico.
Più che guardabile.

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